Ecci Tata (Storie torbide di una babysitter perversa)

Mascherine

Siamo ciò che indossiamo anche quando non lo indossiamo. Vestiamo nudità che rivelano ciò che, ineluttabilisticamente, cerchiamo di celare dietro creme gel che lubrificano i nostri sederi ricchi di cellulite anche nei corpi ormai saturi di zolfi pindarici e veli introspettivi. Che epoca signora mia! Mi scusi se ho suonato, ma non so che cosa sia la voglia di parlarle che mi ha preso. È stato come un fuoco che si è acceso … e io ardo e lardo per te che sei il mio presente, per te la mia mente e come augelli leggeri fuggon tutti i miei pensieri. Il sesso è compromesso da uno stato di possesso che, con permesso in un loculo annesso, richiama il nostro amplesso. Ah donna tu sei mia! E quando dico mia dico che non via più via. E’ meglio che rimani qui a far l’amore insieme a me, è meglio un uovo solo per tutti anche per me che ho il colesterolo alle stelle che sono tante, milioni di milioni. Cosa sarà che fa crescere gli alberi, la felicità, che fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento? Ah che sarà, che sarà che vanno sospirando nelle alcove, che vanno sussurrando in versi e strofe, che vanno combinando in fondo al buio. Que sera, sera, whatever will be, will be. The future’s not ours to see.
Que sera, sera e sarà sarà quel che sarà. I ricchi e i poveri, gli onesti e i disonesti, i malati e i sani, Gianni e Pinotto, Julie & Julie, siamo in un epoca di divisioni e io sono discalculica. Ormai nessuna caseomorfina può addolcire il mio mal de vivre, nessuna gluteomorfina potrà tirarmi su, neanche il gluteo di quel nibelungo australiano che tiene il cacio con una mano e con l’altra mi accarezzi il viso, con una specie di sorriso.

20 km al giorno

 

Non è che fosse proprio bello, era un tipo non alto né basso, non vestito male ma neanche tanto bene, uno con quella faccia un po’ così e quell’espressione un po’ così che abbiamo noi prima di andare a Genova. Girava spesso da queste parti anche lui in cerca di un sapore sopraffino da sposare con il vino e non gli mancava  certo il coraggio di satollarsi con qualsiasi bevanda e con ogni tipo di formaggio. Voi piccoli rododendri sperticati sulle colline tundriche di sentimenti basici persi in aristocratici distacchi di patrizi ignudi osteggianti plebei discinti, voi gente di mare che se ne va dove gli pare e dove non sa, voi che ancora vi chiedete chi fermerà la musica e, soprattutto, cosa resterà di questi anni 80, voi non potete capire cosa spinge noi Eletti alla continua ricerca del piacere oltre il cacio con le pere. C’incontrammo in drogheria e bastò solo uno sguardo a far scoccare in noi ogni più perversa fantasia. Amava cospargermi  di Coincoillotte per poi gustarlo scaldato al caldo del mio corpo nudo. Io amavo su di lui i piemontesi, il suo calore maschio si sposava perfettamente con la Mollana della Val Borbera.
Per arrivare da me faceva 20 km al giorno, 10 all’andata, 10 al ritorno e li per li sembrava non pesargli. Ci gustavamo in tutti i modi, in tutti i luoghi e in tutti i laghi, esploravamo le nostra intimità accompagnati dai regionali, gli elvetici e i francesi, formaggi, vini, pastori sardi, artisti bohémien, guardie svizzere. Condividevamo ogni nuovo sapore,  ci sollazzavamo con ogni nuovo odore, ogni nuovo amante, ogni nuovo formaggio duro, molle o a pasta filante.
Se ne andò un giorno e non lo rividi più, di lui mi è rimasto solo il ricordo e qualche briciola di Tête de Moine. Ho provato a cercarlo facendomi anche io 20 km al giorno, 10 all’andata, 10 al ritorno ma non l’ho più trovato. Seppi poi che era trasferito dall’amante che non era poi così distante, ora abitano in una cascina e producono ricotta vaccina.

Nel sole, nel vento, nella Toma del Monviso e nel pianto

L’equilibrio esosceso dei fiammiridi anglosfani riuniti in questo canto di cervo di primavera si mescola alla pioggia e al profumo dei glicini e del tiglio che verrà.
E’ stata l’ennesima delusione  questa che mi ha lasciato di nuovo sola a leccarmi le ferite e le dita piene di robiola. C’è stato amore negli amplessi complessi, nei gemiti emessi? Non lo so, mi sembravano attimi in cui una luce brillava nei nostri occhi e poi le nubi, quella luce, se la sono portata via. Ma forse era il sole, i cui raggi per 3,14 brillavano nel cielo schiarito di nuove rane e del formaggio grane, che mi ha mostrato ciò che era vero. Non c’è più niente da fare, è stato bello sognare.
Ma cos’è il sogno se non un mondo parallelo su esistenze perpendicolarmente oblique di fatti di misfatti e di emmental senza buchi? La sua vita non poteva incrociarsi con la mia, siamo isole nell’oceano della solitudine e per quanto io preghi Santa Rita S’Accascia ciò che di mistico entra in me non necessariamente coinvolge anche altri amanti del formaggio a cui di certo manca il coraggio per vivere una vita vera fatta di pere e di groviera.
Le storie ce le raccontiamo tutte, le mie a volte le infilo nella carta musica farcita di rucola e taleggio.  Ma per quanto io sia sincera, come l’acqua di un fiume di sera, trasparente eppur sembro nera,  non merito una storia disonesta e puoi cambiarci i personaggi ma, quanta politica ci puoi trovar. Ho compreso che non merito un uomo stitico nell’anima e che devo stare lontana da chi soffre di noia e in me cerca la gioia, l’effervescenza di una vita che ne è rimasta senza. Un alka seltzer e tutto passa.
Me ne sto qui seduta e assente con un cappello sulla fronte, le cose strane che mi passan per la mente. Non riesco neanche a piangere come si deve, l’unica lacrima, scesa come un’unica goccia di Gim, si è dissolta nel vento. Intorno al mondo senza amore, come un pacco postale, senza nessuno che mi chiede come va, resto sola e penso davvero che forse la gente vola, vola e io sto troppo giù, l’amore vola e vola tu non c’eri già più.

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Di natura nella natura

Vorrei poter infilare tutte l’emozioni che ho provato con te in un barattolo per poterle poi degustare nel tempo, a poco a poco, sentendoti sempre in me con il corpo e con la mente come se fossi qui.  Abbiamo solcato mari di erbe gorgonzoleggianti, ci siamo taleggiati in tutti i modi, in tutti i luoghi e soprattutto in tutti i laghi. Io e te e i laghi, io e te da soli (soliii).  Ogni volta che vago, il mio vago camminar vagando, ho in mente te, apro gli occhi e ti penso ed ho in mente te, chiudo gli occhi e ti penso ed ho in mente te, insomma me te se ariproponi continuamente come quelle ficattole fritte nello strutto e  farcite di stracchino che ho mangiato ieri sera per ammazzar la noia nell’essenza della tua essenza, poi mi ci sono bevuta  su l’assenzio, ma non ha senzio continuar così.

Nel mio cuor, nell’anima, scende una lacrima come goccia nel Gim.

Voi, costruttori d’iperbole ottuse invasate da autunnali ormeggi parafrasati da scipione ammirato (ma poi ammirato da chi?), non potete capire come robiola il mio corpo nel ricordo di lui.

Ho amato il tuo profumo forte di Caciofiore, il primo orgasmo me lo hai regalato col naso, poi siamo passati ad altri organi di senso per finire in un amplesso di sinfoniche melodie di organo Bontempi perché sempre fanciulli rimaniam. I tuoi baci, i tuoi caci e la natura che avvolgeva umida i nostri corpi quanto tu mi prendesti per la mano e mi trascinasti in una strada nel bosco il suo nome conosco, vuoi conoscerlo tu? Uomo che sa amare il mio corpo di donna robiolata dal tempo, impaziente di perturbamenti termici, ansimante di canestrato, ho amato sentirti dentro me, la tua penetrante invadenza mi ha fatto raviggiolare nel mio intimo (c’è Chilly).

Tornerà un altro inverno, cadranno mille petali di rose, la neve coprirà tutte le cose e forse un po’ di pace tornerà.  Vedrai vedrai, vedrai che cambierà, forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà.  Ritornerai, lo so ritornerai.

 

 

DI CACI ESPOSTI E SALUMIERI DEL NORD EST

Ero arrivata per caso in quel negozio gironzolando per le vie di una città che a stento riconoscevo a causa del traffico e del logorio della vita moderna, mi sentii subito attratta da quella vetrina che metteva in bella mostra lo Scoparolo dell’Antica Cascina, il Roquefort,  i salumi  felini  miao e almeno  7 delle 50 sfumature di Gorgonzola.  Ero già eccitata prima di varcare la soglia e quando entrai all’interno e vidi quel ricco bancone e il banconiere così fornito  non stavo più in me, alla vista del salumiere avvertii le mie inibizioni vacillare.  Com’era bello con quel corpo possente e le sue deliziose setole scure che rigogliose s’intravedevano dal suo camice bianco, era come un Dio greco veneto che con dovizia tagliava il grana offrendo assaggi alle sue acquirenti che come galline in un pollaio lo riempivano di attenzioni e coccodè. Volevo quell’uomo in tutti i modi, in tutti i luoghi e in tutti i laghi solo per me, già pregustavo un incontro intimo con la sua vetrina ricca di delizie e con le sue grazie ricche di maschia seduttibilità, ma dovevo aspettare che di rimanere sola con lui.  Avevo iniziato a tessere la mia tela mentre il  salumiere serviva le sue clienti, ad ogni ordinazione lo guardavo dritto negli occhi, ad ogni provola lo provolocavo aprendo sempre più la scollatura del mio completino in latex,  per ogni forma che lui intagliava io mettevo in mostra le mie forme. Il tempo sembrava non passare mai e io pregavo Santa Rita S’Accascia affinché il negozio si svuotasse e rimanessimo soli, fu così che fra un pensiero erborinato e un altro piccante giunse il momento del nostro tempo. Voi omuncoli e donnuncole dai bassi profili non potete capire il piacere per me di rimanere sola col droghiere.  Lui, giunonico come solo Giunone poteva essere  se fosse stata un uomo macho macho man e io, che sono una donna, ma che non sono una santa, ci trovavamo soli in quella immensa drogheria senza cannabis o marija. Si offrì subito di farmi assaggiare le sue specialità, le mie gliele avrei fatte assaggiare più tardi. Cominciò così a parlarmi della produzione locale, offrendomi di tanto in tanto piccole porzioni da degustare direttamente dalle sue grandi dita. Ogni volta che mi sporgevo sulla sua vetrina lui era dietro di me a farmi sentire la sua maschia presenza mentre mi chiedeva nel dettaglio cosa io desiderassi.  La nostra voglia si tagliava come una forma di pecorino con un coltello di ceramica giapponese comprato a Taiwan, in meno di un attimo lui aveva serrato il suo negozio da eventuali presenze indiscrete e aperto la sua bottega in esclusiva per me. Com’era dolce il suo emmenthal ci cui con sapienza mi deliziava e com’era dura quella sua parte salumiforme che sporgeva dal suo camice e si strusciava a me. Ci lasciammo andare ai dolci baci e languide carezze mentr’io fremente le belle forme discioglieo dai veli, mi guidò dall’altra parte facendomi appoggiare sul bancone mentre m’illustrava i segreti del pecorino di fossa. Ci amammo fino allo sfinimento tra caci audaci e i profumi di salumi. Non avevo mai conosciuto un uomo così dotato di una cultura casearia come la sua, non avevo mai conosciuto nessun uomo così dotato di una tale vasta scelta di formaggi e di affettati, non avevo mai conosciuto un uomo così dotato.
Sentii finalmente di aver trovato ciò che sempre avevo desiderato: l’amore e il piacere del cacio e del salumiere.

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Il segno, il sogno

 

Sogno un cimitero di campagna e io la, io qua, io e te vento nel vento, io e te nodo nell’anima. Che c’entra Battisti? Perché non è stato ancora estradato dato che è comunque morto come un Dio che è morto? Non posso non pensare alla reunion dei Pooh, al fumo e all’odore caldo qui di dolci e di caffè nero bollente. Mi perdo, perdòno, pèrdono, apri e chiudi le vocali, open the window, close the door, the cat is on the table, open the cat, close your eyes and I’ll kiss you, tomorrow I’ll miss you. I miss you and I miss la missionaria e le altre tue posizioni, compresa quella che avevi nei confronti della politica dei paesi baltici riguardo alla crisi in medio-oriente.  Ti ho amato il tempo di un 45 giri d’estate consumato in un juke box di periferia. Ascoltavi Riccardo Fogli appoggiato al bancone del bar con un estathè scaduto nel ’73. Eri bello come il sole del mattino in un giorno di nebbia, eri alto come un cipresso toscano tentennante al vento di Van Gogh. Entrai nel bar tutta trafelata, avvolta come al mio solito nel cellophane nero che riusciva a stento a trattenere le mie grazie. Ordinai del latte tiepido in tazza grande senza schiuma servito da un barista elvetico di madre creola, all’improvviso  i tuoi occhi incrociarono i miei, capii solo in un secondo tempo che eri strabico. Non so perché fra noi non è funzionato, eppure abbiamo provato in tutti i modi, in tutti i luoghi e in tutti i laghi a mandare avanti la nostra storia di vacca Vittoria, morta la vacca, finita la storia, finito il formaggio.  Chissà perché mi ritorni in mente, chissà perché me te ariproponi come l’abbacchio con le cotiche di mammà.

Forse la reunion dei Pooh è un segno e così  ti vengo a cercare anche solo per vederti o parlare, perché ho bisogno della tua presenza, per capire meglio la mia essenza.

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Sognando

 

Leccarsi le dita dopo aver maneggiato il taleggio è l’esperienza più erotica che mi è capitata di fare ultimamente. Ormai il sesso per me è un ricordo lontano perduto nella nebbia della brughiera, resta in me soltanto malinconia e gruviera. Anche l’auto-erotismo mi sta annoiando, mi conosco troppo bene e mi manca il gusto della sorpresa. Non so più il sapore che ha quella carezza della sera con quella voglia di avventura, voglia di andare via via, vieni via da me … it’s wonderful, it’s wonderful, it’s wonderful good luck my baby.  Voi, bipedi palestrati persi nei sudori di scatole infiammanti vergini scioviniste dalle apparenze ignifughe e languidi capelli laccati al sapone di Marsiglia, faticate a capire le inappetenze di fusti nigeriani inermi con le natiche sode che risplendono al chiaro di luna di Debussy. La vita s’accaglia e fermenta, lo yogurt dell’umanità è spesso acido e io mi elevo. Gloria, Gloria, Gloria Gaynor nell’alto dei cieli gai di stelle stroboscopiche (almeno le stelle stroboscopano). Sogno nuove sensazioni e giovani emozioni, io sogno California … e un giorno io verrò.

Tara Lynn

Tara Lynn

Alghero (in compagnia di uno straniero)

Il vento caldo dell’estate mi sta portando via lungo la strada di ricordi incentrati su genuflessioni elvetiche consacrate al Vacherin fribourgeois. Penso alla mia gioventù che non tornerà mai più, rimembro un membro della confederazione Svizzera che conobbi durante una conferenza sulla grande famiglia delle Gruyère. Si chiamava Gottardo Sbrinz, pur essendo piuttosto stagionato non era certamente un tipo a pasta molle. Gottardo aveva i capelli brizzolati, gli occhi verdi di tua madre e un sorriso che gli illuminava il viso come una lampada osram vicino alla stazione.
Ci conoscemmo durante una degustazione bendata, fu lui ad infilarmi in bocca del Blenio e la sua lingua per poi passare a stuzzicarmi con la Tête de Moine mentre tastava le Tête de Sabrellà. Mi disse che doveva tornare a casa sua a Grindelwald ma che la settimana successiva avrebbe dovuto recarsi ad un convegno sui formaggi sardi ad Alghero e che se lo desideravo poteva portarmi con sé. Mi sarei deliziata con i prodotti caseari dell’isola bella senza amaretto e con il suo corpo e così fu. L’amore con lui avveniva in momenti precisi, era un po’ freddo ma sapevo di poter contare sulle sue grandi riserve segrete. Sapeva come prendermi in tutti i modi, in tutti i luoghi e in tutti i laghi, ero la sua schiava, fu lui a farmi scoprire il bondage e il bricolage, la dominazione e l’allitterazione, l’Hully-Gully, Hully-Gully, Hully-Gà. Era bello starsene ad Alghero in compagnia di uno straniero su spiagge assolate a parlarsi in silenzio fra languide occhiate. Passai con lui giorni idilliaci al sapore di pecorino e fiore sardo, notti in cui ci nutrivamo di passione l’uno per l’altra. Il suo corpo era caldo come un’ Emmentaler e profumato come le Soleil de Sierre Fendant, la mia bocca non ne aveva mai abbastanza di esplorare ogni suo recondita armonia. Me lo sentivo tutto dietro, veniva che sembrava un carrarmato. “Ma chi sei Pinochét?”. Mi faceva soffrire prima di concedermi l’orgasmo, mi dominava indicandomi come mi sarei dovuta comportare a letto,  quando, nei giorni successivi,  cominciò a darmi indicazioni su quello che dovevo fare in cucina e nel soggiorno lo mandai a quel paese. Ero la sua schiava, non la sua cameriera … anche se ripensandoci mi avrebbe pagata meglio dei genitori dei due mocciosi a cui faccio la tata, ma ero giovane e ancora inesperta, dovevo ancora comprendere la potenza dei miei cavalli a cui non guardare in bocca.
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Ed è malinconia, ed è periferia

L’estate sta finendo e un anno se ne va, io mi ritrovo sòla come una provola appesa al filo della mia disperazione. Il cielo è pregno di nuvole come una gatta in gravidanza isterica. Le giornate si stanno accorciando ed io alta non lo sono mai stata. Ho cercato nuove sensazioni e giovani emozioni come sempre in tutti i modi, in tutti i luoghi e in tutti i laghi ma la noia mi precede e mi pervade. Ho pregato Santa Rita S’Accascia perché mi apra a nuove frontiere, quelle della Svizzera me l’hanno chiuse da tempo per contrabbando illecito di emmental, proverò quelle erborinate francesi. Immagino molti di voi umanoidi rancorosi di viscere sotterranee ancorate alla peristalsi eclettica d’incivili marsupiali in un’estate al mare stile balneare con il salvagente. Ma io non sono come voi, io sono un’unica mozzarella di bufala in mezzo a quelle vaccine, sono la scamorza affumicata di ragioni intrinseche che guarda da lontano gli ombrelloni oni oni.  Io me ne starò ancora qui, di nuovo qui, io contro il vento. Sono un’essere di difficile comprensione, nessuno mi può giudicare, nemmeno tu, tu che sei diverso, almeno tu nell’universo che respira e sospinge la tua sfera e la luce che ti sfiora, cosa vuoi?
Ed è malinconia, ed è periferia, è l’unica che sente se stai male veramente. L’amore che strappa i capelli è perduto ormai, ma tanto eri calvo, a te cosa importa? Il sentimento, fatto di respiri caprini e di momenti lattiginosi, è lontano lontano nel tempo. Mi ero ancorata al ricordo di momenti magici fatti di poesia, sesso e camembert, ma non c’è non c’è il profumo della tua pelle, non c’è non c’è il respiro di te sul viso. Vorrei sognarti ma sono solo un angelo a cui hanno tagliato le ali e che non può più volare oh oh cantare oh oh oh oh.  In me resterà il ricordo di una notte quando la tua avida bocca assaporava il mio seno che d’amore era pieno. Resterà nelle mie memorie il tuo odore, il sapore di sale, sapore di mare, sapore di te.

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L’ultimo cacio

Di quei caprini buttati nel vento
l’ultimo cacio mia dolce bambina
brucia sul viso come gocce di puzzone
l’eroico formaggio di un feroce addio
ma sono lacrime mentre piove (gim)

cacioMi ricordo montagne verdi e le corse di una bambina, con l’amico mio più sincero, un pecorino dal guscio nero. Ero giovane e  ancora inesperta del mondo degli uomini e dei formaggi, ma già ne sentivo una certa attrazione che mi provocava una forte emozione come in una vecchia canzone che fa: “Trallallalà”. Mi sentivo affascinata dall’odore caprino del mio vicino, voi pseudoumanoidi dagli abissi iperscrutanti non potete capire cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura, per voi, rimasugli putridi di iPhonatici telefonini che vi mettete in coda ai Gigli e fate figli come conigli, non ci sarà mai l’illuminazione di perdervi anima e corpo nel vero provolone calabrese che nell’amor fa le sue imprese. Io ero così, semplice e aperta, felice di fare sempre una nuova scoperta. Il mio vicino si chiamava Casatiello, non era alto, ma era tanto bello, aveva delle capre e mi chiamava Heidi, forse perché all’epoca vivevo da mio nonno. Trascorrevo con lui le giornate nei pascoli verdi della mia giovinezza, lui mi raccontava delle sue imprese nel paese, di quando andava a vendere con coraggio tutto il suo formaggio. Io mi perdevo nelle sue parole e nei suoi occhi scuri come la notte buia e tempestosa di Snoopyniana memoria. Avevo 15 anni ed ero ancora vergine ascendente scorpione, lo aspettavo ogni giorno per salire sul cucuzzolo della montagna per sentire i suoi racconti fatti di persone e caprini. Pensavo che mi reputasse solo una ragazzina acerba, non avevo certo il coraggio di fare il primo passo, lui era tanto più grande di me e poi era tanto amico di mio nonno e del suo cane Nebbia. Passai con lui giorni di sole, cieli immensi e immenso amore, camminando per discese ardite e poi risalite. L’estate senza fine poi finì e si gelò il mio cuore, dovevo tornare in città, lasciare le montagne, il nonno e lui. Decidemmo di salutarci un pomeriggio, lui era molto triste, triste triste triste, triste triste, triste come me, quando fu il momento di salutarci lui si avvicinò a me, io credevo che volesse baciarmi sulle guance e invece le sue labbra si posarono sulle mie. Ricordo ancora il sapore di quell’unico ultimo bacio che sapeva di cacio. Me ne tornai a casa dei miei genitori e pensai a quel bacio dolce, intenso e allo stesso tempo forte ed erborinato, tutti i giorni fino all’estate successiva quando credevo di ritrovare di nuovo il mio piccolo grande amore, ma non lo trovai più. Se n’era andato a vivere a Francoforte, mio nonno mi disse che si era fidanzato con una ricca ragazza paraplegica di nome Clara e che non sarebbe più tornato.